27 febbraio 2011
MARIO DRAGHI E I TASSI DI INTERESSE
Il
Governatore della Banca d’Italia Draghi ha intelligentemente riconosciuto che i
bassissimi tassi di interesse, i più bassi da almeno due secoli, non hanno
avuto alcun effetto benefico sull'economia e sulla ripresa.
Cito
testualmente dal suo ultimo intervento al 17° Congresso AIAF - ASSIOM FOREX,
visibile per intero qui:
http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2011/forex-26022011/Draghi_260211.pdf :
“D’altronde, tassi
reali a breve
termine ampiamente negativi,
come quelli osservati negli
ultimi due anni, non sono stati sufficienti a rialzare le prospettive di
crescita delle economie meno dinamiche.”
“Nei
primi nove mesi dello scorso anno gli utili dei cinque maggiori gruppi [bancari
italiani] si sono ridotti dell’8 per cento rispetto allo stesso periodo del
2009; il rendimento del capitale e delle riserve, espresso su base annua, è
sceso sotto il 4 per cento. Il margine d’interesse è sceso in due anni dal 2,0
allo 0,9 per cento del totale dell’attivo, a causa del rallentamento dei volumi intermediati e del calo
del mark-down sui
depositi a vista determinato
dal basso livello
dei tassi d’interesse.”
“A beneficio della crescita di tutta l’economia andrebbe
un assetto normativo ispirato, pragmaticamente, all’efficienza del sistema.
Se la legislazione non è trasparente, di qualità, stabile, se gli oneri amministrativi non sono
proporzionati alle attività che
si devono regolare,
l’economia alla lunga
declina.”
Da anni
io sostengo che abbassare il tasso di interesse non porta alcun vantaggio per
le economie avanzate, anzi troppo spesso arreca danni seri e irreparabili sia
al sistema economico sia al tessuto sociale.
Ricordo
questo mio articolo di quasi sei anni fa, pubblicato su Società Libera del 29
Settembre 2005, qui:
http://www.societalibera.org/it/documdi/documdi_20050929_matteucci.html
che posto qui sotto per
comodità del lettore.
Forse
qualcuno troppo abituato a giocare con formulette econometriche avrebbe tratto
beneficio da una sua lettura, magari attenta e seguita da una responsabile
riflessione...
“Effetti della manovra sul tasso di interesse
Col presente articolo intendo
svolgere alcune considerazioni, assolutamente non sistematiche, sulle
conseguenze delle manovre sul costo del denaro, considerazioni che si
inquadrano tuttavia nella critica ai fautori di un’economia di carta; mi
riferisco con tale locuzione agli epigoni delle antiliberiste scuole keynesiane
o neokeynesiane, a coloro che sognano di poter creare ricchezza dal nulla,
ricorrendo alla spesa pubblica, al debito pubblico, a interventi e interferenze
di uno stato onnipresente su variabili economiche non reali ma meramente
contabili o monetarie.
Gli
effetti di una manovra, al rialzo o al ribasso, sui tassi di interesse (1)
ricadono principalmente su due grandezze macroeconomiche: il tasso di cambio
della valuta nazionale e la domanda interna. Tralascio per brevità altri
effetti secondari.
Per quel che concerne gli effetti
sul tasso di cambio, è ovvio che maggiori rendimenti del denaro imprestato e,
di conseguenza, maggiori rendimenti dei titoli di stato (2) attraggono capitali
esteri. La maggiore domanda di bond da parte di soggetti esteri, porta a una
maggiore domanda estera della valuta in cui quei bond sono emessi, provocando
un rialzo del tasso a cui quella moneta è scambiata con altre valute. Una diminuzione
del costo del denaro ha naturalmente effetti inversi.
Contestazioni radicali vanno
invece avanzate contro le supposizioni dell’ortodossia statalista sugli
ulteriori effetti che il rafforzamento o il deprezzamento di una valuta nei
confronti delle altre ha sul prodotto interno e sul reddito. Cominciamo col
fare dei distinguo basati sul tipo di economie prese in considerazione. Paesi
che producono merci di fascia bassa, tecnologicamente mature od obsolete, di
bassa qualità, si affannano ad alimentare le loro esportazioni con svalutazioni
competitive della loro moneta. Le altre nazioni che importano tali beni sono
così invogliate all’acquisto dal fatto di pagare poco, con le loro monete più
forti, tali merci. Una moneta nazionale svalutata fa sì, perciò, che i prodotti
di quel paese costino di meno all’estero, e si vendano di più. La diminuzione
del costo del denaro e la conseguente svalutazione della moneta possono quindi
costituire una strategia percorribile per i paesi che esportano prodotti ad alto
contenuto di lavoro e di materie prime nazionali, soprattutto se tali paesi
sono ai primordi dello sviluppo economico, sempre tuttavia a non voler
considerare il depauperamento delle risorse interne e la sottoremunerazione dei
lavoratori che a tale strategia conseguono.
Ben diverso è il discorso per le
economie di trasformazione, che esportano cioè prodotti ad alto contenuto di
materie prime importate. In tali paesi, le svalutazioni competitive della
moneta comportano momentanei e illusori miglioramenti della bilancia
commerciale (3), della domanda estera e del prodotto interno, miglioramenti che
svaniscono come fumo non appena le imprese devono ricostituire le loro scorte
di materie prime riacquistandole all’estero a prezzi resi più cari dalla svalutazione
della moneta con cui comprano (4). Gli effetti della spirale inflazionistica
che tale manovra provoca sui prezzi sia interni che esteri dei beni prodotti in
tali paesi sono una realtà storicamente e tristemente più che provata: ne sa
qualcosa l’Italia. Ma la svalutazione competitiva ben si addice alle economie
di carta perseguite dagli economisti neokeynesiani, le cui teorie vorrebbero
sostituire, come causa di incremento delle esportazioni, un effetto da
illusionisti, il momentaneo calo dei prezzi all’estero dei prodotti da
esportare indotto dalla svalutazione della moneta, a un fattore concreto e
reale, la qualità e la competitività tecnologica dei prodotti nazionali. Una
delle riprove storiche di quanto affermo è rinvenibile nella Germania dell’epoca
di Kohl: il marco tedesco era la moneta forte mondiale, quasi un bene rifugio,
i prodotti tedeschi all’estero erano nettamente più cari di quelli dei paesi
esportatori concorrenti, eppure la Germania esportava a spron battuto, perché i
suoi prodotti erano tra i migliori, e gli acquirenti di tutto il mondo li
richiedevano (5).
Sintetizzando, e riferendomi alle
sole economie avanzate di trasformazione, esporta quel sistema – paese che
produce beni di qualità migliore e riesce così a conquistare la fiducia dei
consumatori, interni ed esteri; e non quel sistema – paese che, ricorrendo a
forzate diminuzioni del costo del denaro e conseguenti svalutazioni
competitive, affossa la propria moneta distruggendo la ricchezza liquida dei
propri cittadini (6). Inutile ricordare che l’intera area dell’euro è
un’economia avanzata di trasformazione.
Veniamo agli effetti sulla domanda
interna, anch’essa componente del prodotto interno e del reddito, al pari di
quella estera. I teorici statalisti e antiliberisti delle economie di carta
sostengono che la diminuzione del costo del denaro invoglierebbe gli
imprenditori a investire, potendo questi ultimi prestarsi soldi dal sistema
finanziario e creditizio a un tasso inferiore. La spesa per investimenti così
generata avrebbe un effetto moltiplicatore su tutto il sistema economico,
creando prodotto interno e reddito nazionale. Ugualmente, i consumatori
sarebbero indotti a risparmiare di meno, visto il minor rendimento dei loro
risparmi, e a spendere di più, magari comprando a rate quando i risparmi non ci
sono. Tale aumento dei consumi incrementerebbe a sua volta la domanda interna.
A fronte di tali ottimistiche aspettative c’è la realtà di megasistemi
economici, quali l’area dell’euro e il Giappone, con tassi reali di interesse negativi
(7) ed economie in stagnazione da anni. Come mai in tali aree economiche la
domanda, gli investimenti, i consumi non ripartono? A questi tassi di
interesse, i più bassi del secolo, queste economie avrebbero dovuto schizzare
in alto come uno Shuttle dalla sua rampa di lancio. Invece gli unici fenomeni
economici che si riscontrano in tali aree, oltre alla stagnazione, sono una
bolla speculativa immobiliare e una perdita del potere di acquisto delle
famiglie, con difficoltà per le stesse ad arrivare alla fine del mese.
Eppure la risposta a tale
apparente stranezza è evidente, e non la si vede solo se non la si vuol vedere:
le possibilità economiche delle famiglie sono decimate dal calo dei rendimenti
dei loro risparmi e dall’aumento dei costi per le abitazioni. Le famiglie si
tengono ancora più stretti i loro risparmi, non consumano, non domandano i
prodotti che le imprese offrono. Gli imprenditori di conseguenza non investono:
poco importa se a me imprenditore la banca presta a poco i soldi per ampliare la
mia impresa e produrre di più, quando non avrei nessuno disposto a comprare
questo surplus aggiuntivo di prodotti. E quindi la domanda interna non cresce.
Cresce invece a dismisura il prezzo degli immobili, perché, visto il rendimento
reale negativo di depositi e obbligazioni, la gente investe i propri risparmi
nel mattone. E chi non ha risparmi è comunque invogliato dal bassissimo costo
dei mutui ad acquistare anch’egli immobili, prestandosi il denaro necessario.
Gli immobili sono infatti un investimento sicuro, visto che la pressione degli
immigrati extracomunitari tiene su la domanda di case, in proprietà o in
affitto, e impedisce odierne e future diminuzioni del loro prezzo.
E’ quindi ora evidente ciò che
voglio sostenere: nei paesi avanzati, ricchi, dove i residenti sono possessori
di piccole e grandi ricchezze mobiliari, il rendimento del denaro, dei
risparmi, prima di essere un costo per le imprese indebitate, è una componente
basilare, sia in senso materiale che psicologico, del reddito delle famiglie.
Una diminuzione del rendimento del denaro produce una flessione dei consumi, a
mio avviso ben più pesante dell’altra conseguenza, peraltro estremamente
teorica, di tale diminuzione, e cioè l’aumento degli investimenti delle
imprese.
Sottolineo che analogo effetto
depressivo sui consumi delle famiglie, e di conseguenza sull’intera economia,
ha un aumento della tassazione sui redditi finanziari, incidendo anch’essa
sulle possibilità di reddito e di spesa delle famiglie. L’erario di stati con
un elevato debito pubblico, come l’Italia, beneficia sì, in caso di bassi tassi
di interesse, di un minor esborso di spesa per interessi sul debito, ma a tutto
svantaggio delle tasche dei cittadini risparmiatori, che hanno prestato quei
soldi allo stato investendo in BOT, CCT e BTP; l’effetto è lo stesso di una
maggiore tassazione proprio sui risparmi.
Non sono certo questi giochi (8)
su variabili monetarie e contabili, su tassi e tasse, sull’ultima bidonata da
rifilare a investitori e risparmiatori che salveranno l’Europa dall’attuale
decadenza. Penso invece che il problema sia un problema di qualità. Qualità di
certa imprenditoria, troppo abituata a sussidi di stato, bassa tassazione
effettiva sui redditi d’impresa, frequente ricorso al nero (9). Qualità della
classe dominante, dei c.d. “poteri forti” assistiti (10), delle famiglie
dominanti, più use allo sfruttamento del resto del paese (11) che ad acquisire
capacità, meriti, successi sul campo e virtù. Qualità dell’apparato
amministrativo, elefantiaco generatore di debito pubblico, di sprechi
incontrollati, causa di prelievo fiscale eccessivo, clientelare datore di
lavoro di milioni di dipendenti pubblici scarsamente produttivi. Qualità dei
lavoratori, poco inclini a riqualificare le loro labour skills e i loro stili
di vita, come la competizione globale richiederebbe.
In Italia, in particolare, troppa
gente vuol vivere sulle spalle degli altri, in modo lecito o illecito,
pretendendo il ricorso alla tassazione o al pizzo. Ovvio che in un tale
scenario non edificante, chi può cominci a guardarsi intorno: il mondo è vasto,
e altri paesi possono offrire qualità di vita, sicurezza, tranquillità (anche
fiscale) ben maggiori.
Note:
(1) Il tasso di interesse altro
non è che il costo del denaro per chi si indebita, e il rendimento dei soldi
dati in mutuo per chi li presta.
(2) I titoli di stato sono titoli rappresentativi di soldi prestati
allo stato.
(3) Ma con movimenti di capitali in fuga verso l’estero.
(4) Non rientrano invece i
capitali fuggiti all’estero: i capitali hanno una memoria da elefante e, una
volta scottati da svalutazioni e tassazioni, difficilmente ritornano da chi li
ha traditi.
(5) Ovviamente, il riferimento a Kohl astrae completamente dal colore
politico dell’allora cancelliere tedesco. Oggi, in Europa, non è rilevante il
credo politico professato dagli amministratori pubblici. Occorre invece capire
quali diverse alleanze (o cosche, come le chiama Briatore) tra famiglie padrone
di multinazionali o di grandi imprese finanzino e diano ordini a questo o a
quel politico. E per saperlo basta informarsi sullo yacht di chi il tale
ministro ha passato le ferie. Il tutto detto senza alcuna ironia.
(6) E’ singolare e indicativo che i mass media vogliano farci credere
che tali svalutazioni vengono effettuate non solo a favore degli imprenditori
ma anche e soprattutto a favore dei lavoratori, quando in realtà sono proprio i
risparmi e il potere d’acquisto dei lavoratori e degli anziani che vengono
distrutti e mandati in fumo dall’inflazione che ne consegue.
(7) Tasso reale negativo vuol dire
che chi presta soldi ha un rendimento inferiore all’inflazione, cioè alla
perdita di potere d’acquisto dei soldi prestati, e quindi sta rimettendoci. Sta
anche pagando una tassa allo stato, visto che l’inflazione è di fatto una
tassa. Naturalmente mi riferisco all’inflazione reale, non ai dati dell’ISTAT,
cui non crede più nessuno.
(8) Giochi i cui registi sono sclerotici e ben conosciuti “poteri
forti”, miranti come sempre solo ai loro momentanei interessi, a scapito degli
altri cittadini.
(9) Occorre distinguere: la
qualità la troviamo nella piccola e media impresa, non nella grande impresa
assistita, usa com’è quest’ultima a fare e disfare i governi e a ripianare i
bilanci in rosso coi soldi dei contribuenti. D’altra parte, proprio quelli che
hanno fatto fortuna sfruttando il lavoro sommerso per fabbricare i loro
prodotti a bassa tecnologia, senza mai pagare una lira di tasse, oggi, uscendo
in yacht dal guscio delle loro province, si ergono a moralizzatori del sistema e
a tartassatori di risparmiatori e investitori.
(10) Poteri forti la cui esistenza viene affannosamente negata proprio
da quei partiti, di vari ed opposti colori politici, da tali poteri oggi
finanziati; poteri forti a cui fa profitto controllare non i mercati ma gli
stati; poteri forti a cui fa paura non la piazza o il sindacato ma solo la più
sfrenata libera concorrenza.
(11) Vedasi le recenti pretese di aumentare la tassazione sui risparmi
degli altri cittadini.”
Chi volesse approfondire
ulteriormente l'argomento può leggersi il mio "Principi di economia
privatista" qui:
http://www.finanzaediritto.it/articoli/principi-di-economia-privatista-4096.html
Il Cavaliere Premier farebbe
meglio a contornarsi di validi e pragmatici economisti, invece che di equivoche
e inutili ballerinette.
Avv. Filippo Matteucci
Economista liberista
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